In ricordo della prozia Vivà, morta ad Auschwitz

Della sorella di mia nonna Vany, Vittoria Nenni in Daubeuf, so poco.

Oggi, nella ricorrenza della giornata della memoria mi è tornata in mente, e in rete ho trovato un testo che ne racconta in sintesi la storia, conclusa tragicamente nel campo di sterminio di Auschwitz. Sapevo che era soprannominata Vivà.

«Nata ad Ancona il 3 ottobre 1915, sposò giovanissima il cittadino francese Henry Daubeuf. Col marito, dopo l’invasione tedesca della Francia, Vittoria entrò nella Resistenza. Arrestati dalla Gestapo, con l’accusa di aver stampato e diffuso manifestini antinazisti e di avere svolto, soprattutto negli ambienti universitari, “propaganda gollista antifrancese”, Henry venne fucilato, l’11 agosto 1942, al Mont Valerien, nelle vicinanze di Parigi e Vittoria fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz dove morì» leggo dalle pagine web dell’Associazione Nazionale partigiani d’Italia di Lissone. «Per commemorare la memoria di quest’ultima, il PSI le dedicò l’immagine (di Renato Guttuso) nella tessera del partito nel 1988».

Il mio bisnonno Pietro parla della figlia Vittoria in diverse pagine dei suoi diari:

«Il ben augurale nome non ha portato fortuna».

9 aprile 1944

«Pasqua! La passo coi miei. L’anno scorso ero a Regina Coeli, nel 1942 ero solo soletto al confino di Pierrefort. Ma sono oggi, più che allora, oppresso di tristezza. Mi rattrista il pensiero della mia Vivà, che passa nel campo di concentramento di Auschwitz la sua seconda Pasqua di internata …»

16 aprile 1944

«Ho buone notizie di Vivà».

7 maggio 1945

«Stasera è giunta da Parigi una lettera disperata di Vany che corre alla ricerca di notizie di sua sorella e si urta al muro di silenzio. Risulterebbe che Vivà non era più dal marzo a Ravensbruk ma al campo di sterminio di Mauthausen. Una notizia captata a « Radio Parigi» smentisce la voce che mia figlia sia morta e afferma che non si hanno di lei notizie. Attendiamo. Ma ho il cuore gonfio di malinconia».

29 maggio 1945

«Una giornata angosciosa. Tornato in ufficio… informato che c’è una lettera di Saragat a De Gasperi che conferma la notizia della morte di Vittoria.

Ho cercato di dominare il mio schianto e di mettermi in contatto con De Gasperi che però era al Consiglio dei ministri. La conferma mi è venuta nel pomeriggio, da De Gasperi in persona, che mi ha consegnato la lettera di Saragat. La lettera non lascia dubbi. La mia Vivà sarebbe morta un anno fa nel giugno. Mi ero proposto di non dire niente a casa, ma è bastato che Carmen (ndr moglie di Nenni) guardasse in volto per capire …

Poveri noi! Tutto mi pare ora senza senso e senza scopo.

I giornali sono unanimi nel rendere omaggio alla mia figliola. Da ogni parte affluiscono lettere e telegrammi. La parola che mi va più diretta al cuore è quella di Benedetto Croce: “Mi consenta di unirmi anch’io a Lei in questo momento altamente doloroso che Ella sorpasserà ma come solamente si sorpassano le tragedie della nostra vita: col chiuderle nel cuore e accettarle perpetue compagne, parti inseparabili della nostra anima”.

Povera la mia Vittoria! Possa tu, che fosti tanto buona e tanto infelice, essere la mia guida nel bene che vorrei poter fare in nome tuo e in tuo onore».

Parigi, 11 agosto 1945

«A Parigi sono ospite di Saragat all’ambasciata.

Nel pomeriggio ho ricevuto all’ambasciata Charlotte Delbo Dudach, la compagna di Vivà. L’altra compagna di Vivà che pure è rientrata, Christiane Charma, non è a Parigi. Il racconto di Charlotte è straziante. Vivà è arrivata ad Auschwitz il 27 gennaio 1943. Il suo gruppo era composto di duecentotrenta francesi; due mesi dopo era ridotto a quarantanove. Il viaggio era stato duro ma esse erano lungi dall’immaginare che cosa le attendeva ad Auschwitz. Quando sono entrate nel campo cintato da reticolati a corrente elettrica esse hanno avuto l’impressione fisica di entrare in una tomba. “Non usciremo più”, ha detto Vivà. Ma poi è stata fra quelle che hanno ripreso coraggio. Sono state spogliate di tutto, vestiti, biancheria, oggetti preziosi, indumenti intimi e rivestite di sudici stracci a righe carichi di pidocchi. La loro esistenza si è subito rivelata bestiale.

Sveglia alle tre e mezzo, appello alle cinque, lavoro dall’alba al tramonto in mezzo al fango delle paludi. Un vitto immondo e nauseabondo. Non acqua. Neppure un sudicio pagliericcio, ma banchi di cemento e una lurida coperta. Vivà ha reagito con ogni forza all’avvilimento fisico e, morale. Era fra le più intrepide e coraggiose. Sul braccio destro le deportate portavano il loro numero. Vivà aveva il n. 31635. Il gruppo delle francesi costituiva una forte unità morale. … Prima di lasciare Romainville, Vivà aveva saputo della fucilazione di Henry (ndr Henry Daubeuf, marito di Vittoria). Anche il marito di Charlotte era stato fucilato … Charlotte è stata ammalata di tifo prima di Vivà e dice di dovere la vita alle cure assidue di mia figlia. A sua volta ha assistito Vivà come una sorella. Il tifo si è dichiarato l’11 aprile. Qualche giorno dopo il gruppo di Vivà è stato assegnato a un lavoro all’interno. Era forse la salvezza. Purtroppo la mia povera figliola non si è più completamente riavuta. Essa ha lottato con energia contro il male. Ma è sopravvenuta una complicazione forse nefritica. Una piaga si è aperta al ginocchio e ha dovuto allora rassegnarsi ad andare all’infermeria, il “revir” che era quasi sempre l’anticamera della stanza dei gas. La forte costituzione di Vivà è sembrato trionfasse del male; Ma migliorate le piaghe alle gambe, un ascesso si è dichiarato sopra l’occhio destro. In breve il corpo, che non era scarno come quello della maggioranza delle deportate, fu tutto una piaga.

Charlotte vedeva Vivà di nascosto e le portava un po’ d’acqua, una pezzuola bagnata da mettere sulla fronte. L’ultima volta che vide Vivà fu l’8 luglio. Delirava a tratti. Parlava di pranzi, di “crévettes alla crema” che gli passava la cucina, di sua sorella Vany che stava per arrivare … Seppe dello sbarco in Sicilia e se ne rallegrò per suo padre … è morta il 15 luglio pregando una compagna di giaciglio di far sapere a suo padre che era stata coraggiosa fino alla fine e che non rimpiangeva nulla… .

Vivà parlava sempre di me. Prima di partire per Romainville il comandante del Forte le disse che rivendicando la sua nazionalità italiana avrebbe evitato la deportazione. Rispose “que son père aurait eu honte d’elle”. In verità ella si era legata al gruppo delle sue compagne e romanticamente stimava di doverne seguire la sorte.

Charlotte mi dice che il 9 febbraio 1943 lo passarono davanti al Blok 25 che era quello delle punizioni, una specie di ammazzatoio. Tutto il giorno nel freddo, nella pioggia, nel fango stettero in piedi. Videro una donna, una deportata come loro, presa alla gola dai cani. Vivà parlò di me e del mio compleanno. Io ero quel giorno a Vichy nella sede delle SS in stato di arresto e disperatamente pensavo a Vivà. La sera fui portato alla prigione di Moulins, una reggia nei confronti di Auschwitz … Sono come ossessionato dalle cose apprese ieri. Non riesco a pensare ad altro … Alcuni dettagli del racconto di Charlotte saranno l’incubo della mia vita …

Povera la mia figliola!».

2 novembre 1945

«Mi è sembrato che chi può fiorire una tomba conserva un’apparenza almeno di legame coi suoi morti. Non così per me che penso disperatamente alla mia Vittoria e non ho neppure una tomba dove volgere i miei passi. Il 31 era l’anniversario della mia figliola. Avrebbe avuto trent’anni e tutta una esistenza ancora davanti a sé … quanto sarebbe stato meglio davvero che io, in vece sua, non fossi giunto al traguardo».

 

«Ad Auschwitz» si legge ancora nel blog dell’ANPI di Lissone «Vittoria Nenni che non aveva una formazione ideologica, si unì al gruppo dei comunisti francesi. Le comuniste erano sorprese della sua forza di carattere, del suo coraggio, dell’ottimismo che non l’abbandonò mai, fino in punto di morte».

Qualche anno fa mia mamma Danielle, figlia di Vany e nipote prediletta di Pietro Nenni, mi regalò la medaglietta di Henry Daubeuf, qui nella foto accanto all’orologio che fu di mio bisnonno Pietro e a due foto di lui, da piccolo all’orfanotrofio di Faenza e con una figlia – forse Vittoria, chissà – di cui so solo che fu scattata ad Amélie-les-Bains, nei Pirenei orientali. Mi fece vedere anche vedere un altro cimelio che ho cercato tutta la sera: il tesserino di identificazione che diedero a Vivà ad Auschwitz.

Quando riuscirò a ricostruire dov’è (forse lo ha mia sorella) pubblicherò anche quello.

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